Il 28 settembre 2018 si è svolto presso il Centro Cultural
Brasil-Itália (CCBI) dell’Ambasciata del Brasile in Italia, in collaborazione
con la Scuola Popolare di Musica di Testaccio e il Laboratorio Choro,
l’incontro “Lo choro in Italia:
trasmissione culturale e didattica”, probabilmente il primo momento di
riflessione collettiva tra chi pratica e studia lo choro in Italia. L’incontro
è stato strutturato in base a diverse tematiche, come il confronto tra le
esperienze brasiliane e le possibili vie per una didattica in Italia, i diversi
tipi di approccio che si hanno nel Brasile stesso, la roda come esperienza culturale e aggregativa, la diffusione dello
choro in Italia tra il mondo classico e quello “popolare”.
Da
organizzatore dell’evento, nel programma di sala (https://laboratoriochoro.blogspot.com/2018/09/lo-choro-in-italia-trasmissione.html), avevo scritto un testo in cui precisavo quelli che a mio giudizio erano i presupposti e gli obiettivi della discussione. Il punto di partenza
è che oggi, diffondendosi lo choro nel mondo, e nello specifico in Europa
(pensiamo alla EPM di Rotterdam, al Club du Choro di Parigi, ecc.), si pongono
questioni nuove riguardo alla sua natura (si intende lo choro più come un tipo
di repertorio o più un modo di suonare e relazionarsi tra musicisti?), alla
didattica e alle modalità della sua trasmissione culturale, in un contesto
diverso da dove è nato. Questioni particolarmente delicate per un genere che ha
sviluppato solo recentemente una sua strutturazione didattica, a differenza ad esempio
del jazz. E soprattutto in Italia: come è possibile “apprendere” e “insegnare”
lo choro? Che tipo di formazione dovrebbero avere i musicisti che lo divulgano?
Che rapporto può intercorrere tra dimensione professionale e amatoriale? Ossia,
in che modo si può apprendere e fare proprio quel linguaggio? Attraverso un
processo di “scolarizzazione”? O
attraverso quell’“immersione totale”,
di cui mi parlava, in un precedente scambio epistolare, Maurício Carrilho?
Tutte queste
questioni sono a mio giudizio legate a un altro punto importante: la difficoltà
dell’affermarsi in Italia di un “punto
di vista brasiliano” sullo choro (e sulla musica brasiliana), “schiacciato”
da una agguerrita didattica del jazz,
che da decenni ha imposto le sue codificazioni teoriche che impediscono di
cogliere l’autentica natura “barocca” della pratica contrappuntistica
choristica, e da una tradizione classico-erudita troppo incentrata sul binomio
scrittura/lettura che tende ad oscurare la natura prevalentemente orale,
popolare e audiotattile della tradizione dello choro, che come tutte le culture
musicali si trasmette soprattutto attraverso il contatto diretto (in genere di
natura o didattica o
pratico-collaborativa), con chi pratica quella cultura, facendone parte.
L’incontro, a cui poi è seguita una roda presso la Scuola di Testaccio, è stato aperto dal chitarrista e saggista Raffaele Bella, in questa occasione il
moderatore, che da molti anni si occupa di cultura brasiliana, e che proprio
nelle sale del CCBI (ex CEB), negli anni ’90 aveva cominciato la sua attività
divulgativa su questi argomenti. Bella prima di tutto ha ribadito l’importanza
di una visione “afrocentrica”, che
può permettere di leggere le esperienze delle musiche afroamericane attraverso una
corretta prospettiva, rivendicando il ruolo dei musicisti afrodiscendenti nella
nascita dello choro. Ha ribadito l’esigenza di un superamento
dell’eurocentrismo, e sottolineato come oggi si stia affermando una nuova
percezione di questi fenomeni, e su come lo choro si stia diffondendo anche da
noi.
A seguire io ho presentato la mia relazione introduttiva, “Didattica per lo choro e choro per la
didattica”, in cui partendo dai
presupposti su esposti, ho prima di tutto raccontato la storia della mia
relazione con la musica brasiliana e nello specifico con lo choro. E se da un
lato è possibile dire che il mio rapporto con la musica brasiliana è cominciato
alla fine degli anni ’70, cominciando poi a comporre i primi choros negli anni
’90, è vero anche che un momento di svolta è stato tra 2009 e 2013, quando ho
cominciato a partecipare a volte alle rodas
del Conjunto Choroma e quando ho
conosciuto Guinga e poi il duo Choro de Rua, formato da Barbara
Piperno e dal chiatarrista Marco Ruviaro, con i quali è nata poi una importante
collaborazione. Ma un altro momento di crescita nella mia relazione con la
musica brasiliana è stato nel momento in cui, prima presso la Scuola di Musica
di Testaccio poi anche al Conservatorio di Reggio Calabria, ho cominciato negli
stessi anni a tenere laboratori e
seminari. Mettersi nell’ottica di dover spiegare determinati aspetti della
musica brasiliana, è stato stimolante e mi ha costretto, oltre che a studiare
di più, a pormi interrogativi che prima non mi ponevo. Più recentemente con la
nascita nel 2017 del Laboratorio Choro,
sempre a Testaccio, mi sono reso conto che, oltre alla necessità di sviluppare qui
in Italia una forma specifica di didattica per lo choro, allo stesso tempo lo
choro può svolgere più in generale una straordinaria funzione didattica per
l’apprendimento della musica. Da qui il titolo della relazione.
È poi intervenuto Fabio
Falaguasta, chitarrista e cavaquinista con il quale dallo scorso anno
conduco il Laboratorio Choro, il quale ha iniziato l’intervento parlando delle
sue esperienze in Brasile, dalle rodas
al Bip Bip di Copacabana, alle varie
esperienze didattiche come quella alla Casa
do Choro di Rio de Janeiro, alle lezioni private e fino alla conoscenza con
Henrique Cazes. Falaguasta ha
sottolineato come lì a Rio, i contesti dello choro e del samba vengano
costantemente mescolati, essendoci una intercomunicabilità
tra i generi, a partire dagli esempi di Paulinho da Viola, Luciana Rabello
e altri. Come musicista italiano sottolinea poi come per noi il problema
principale sia quello ritmico, mettendo in evidenza la difficoltà di insegnare
una musica che per noi è comunque “altra”, essendo per altro una musica
veicolata soprattutto attraverso forme di tradizione orale. Riguardo a una possibile
didattica da sviluppare qui in Italia,
come quella del Laboratorio a Testaccio, è importante chiedersi verso chi sia
indirizzata, per poter poi sviluppare percorsi adeguati, attraverso ascolti, lo
studio teorico dei testi di riferimento (Almada, Cazes, Carrilho), e
soprattutto tanta pratica.
Gaetano Meola, chitarrista
e ricercatore, ha successivamente anch’egli raccontato quale sia stato il suo
percorso di conoscenza della musica brasiliana: da musicista non
professionista, che non aveva conoscenze in quest’ambito, anche attraverso il
web è riuscito ad avvicinarsi a questo genere. Da chitarrista classico
incontrava brani che erano definiti “choro”, ma senza conoscere, in una prima
fase, il repertorio dello choro che c’era dietro. Così, dopo la bossa nova, è
andato via via scoprendo choro e samba, e ha cercato qui in Italia chi praticasse
questi tipi di musica. Poi nel 2018 è stata molto importante per lui
l’esperienza didattica vissuta alla “Escola
Portatil” della “Casa do Choro”
di Rio de Janeiro, e ha raccontato come questa è nata, mettendo in evidenza il
lavoro di ricerca che la caratterizza, che ha portato alla realizzazione di pubblicazioni
e alla formazione di archivi: la costituzione della Casa do Choro, e lo
sviluppo degli studi universitari sullo choro in Brasile, hanno fatto sì che negli
anni 2000 la cultura dello choro arrivasse con più forza in Europa: Rotterdam,
Bruxelles, Parigi, ecc. Meola sottolinea poi come sia fondamentale incrementare
lo spirito aggregativo dello choro, che
si manifesta principalmente nella dimensione della roda, e in ultimo mette in evidenza come dal punto di vista
didattico lo choro possa essere un valido strumento per insegnare l’armonia
tonale.
È stato poi il turno di José
Magalhães chitarrista che per alcuni anni ha lavorato a Roma per la “Caritas
Internationalis”. Magalhães, nato nel Maranhão, ha poi vissuto a Brasília e si è
formato presso la “Escola brasileira de
Choro Raphael Rabello”, la prima scuola di choro nata in Brasile. Ha
raccontato come molti musicisti di Rio de Janeiro e non solo, tra anni ’60 e
’70, vennero poi a Brasília, facendo “fermentare” la cultura dello choro, fondando
il “Clube do Choro de Brasília”, tanto
da poter affermare che se lo choro “è nato a Rio, ora la capitale mondiale
dello choro è Brasília”. Tra quei musicisti attivi a Brasília, tra cui Reco do Bandolim, Alencar Soares e altri, nacque la consapevolezza che non bastava
più solo suonare: era necessario trasmettere
la cultura della choro. E così nel 1998 nacque la “Escola”, dove si è
formata una didattica (le cui tre parole fondamentali sono
“pratica-teoria-pratica”), che ha portato alla stesura del “Manual do Choro”, a
cura di Henrique Neto e Dudu Maia. Magalhães ha poi sottolineato
l’importanza dello choro nel mondo (“se Bach fosse vivo oggi suonerebbe choro…”),
e l’importanza di occupare anche gli spazi istituzionali (come mette in
evidenza il libro di Henrique Cazes “Do Quintal ao Municipal”). “Dopo l’ondata
della bossa nova è giunto il tempo di diffondere
questa cultura. Oggi è il tempo dello choro, che è una cultura non solo del
Brasile, ma è di tutto il mondo, ed è universale”.
Poi nel suo intervento il chitarrista, mandolinista,
compositore di São Paulo, da tempo residente in Italia, Marco Ruviaro ha sottolineato l’importanza
della roda, come principale
modalità di trasmissione dello choro, la quale rappresenta una grande scuola per
il suonare insieme sulla base del rispetto
reciproco e dell’ascolto, tanto che insieme al chitarrista 7 corde francese
Denis Julien ha sviluppato una serie di indicazioni per la buona riuscita di
una roda. Ruviaro ha poi accennato
alla sua difficoltà di parlare di “didattica”, essendo “nato e cresciuto nello
choro”. “Quando ero bambino mio nonno [lo chorão
cavaquinista “Chuvinha”, ossia Cyro Teixeira Tucunduva], mi diede il suo
mandolino e cominciai a suonare con gli amici. Non lo considero un merito, è
stata solo una esperienza diversa”.
Una volta arrivato in Italia nel 2007, è
stato poi attraverso il rapporto con uno studioso come Denis Julien che ha “capito
in modo cosciente che la forma migliore per eccellenza per trasmettere lo choro
è la roda de choro”. Ossia,
probabilmente Ruviaro, nascendo dentro quel contesto, non aveva mai
pensato in una forma consapevole e razionale alla roda. “Nelle rodas in Brasile ho visto il signore che suona da 60
anni, magari insieme a dei bambini, e attraverso il suo modo di suonare egli
trasmette i pezzi imparati a memoria, quelli che vuole suonare o magari quelli
che non vuole suonare… Tutto questo fa parte di un profondo processo di trasmissione culturale ed è un fatto
prevalentemente sociale”. Da quando è in Italia poi Ruviaro è un
instancabile organizzatore di rodas
(fin dal 2007 a Torino e successivamente a Bologna), nelle quali ha cercato di
trasmettere tutto il suo bagaglio culturale: “la roda insegna a suonare insieme, insegna il rispetto tra i
musicisti, l’ascoltare, abitua in dettaglio a riconoscere cosa fa un altro
strumento: tutte queste cose definiscono il linguaggio dello choro. E la roda
in questo processo è la cosa più importante. Fuori dal Brasile tutto questo non
è scontato […]. È importante che i musicisti abbiano una relazione con il linguaggio
dello choro, non basta essere i più bravi tecnicamente. Inoltre, nello spartito
di un brano di choro non ci sono tutte le informazioni. Un non brasiliano,
ancora di più, deve ascoltare, deve frequentare rodas e creare un ambiente”.
Nell’intervento seguente, il ricercatore e chitarrista, Roberto Dogustan, ha raccontato la
sua esperienza con lo choro che è cominciata soprattutto attraverso la lettura
degli choros: in particolare
attraverso l’esperienza di un gruppo di persone a Roma, il “Conjunto Villa Pamphili”, le quali da
anni si riuniscono quotidianamente per leggere un numero sterminato di choros (anche contemporanei), d’estate
in villa e d’inverno al chiuso, ribadendo che il loro approccio allo choro si è
sviluppato totalmente attraverso gli
spartiti, probabilmente nemmeno dall’ascolto dei dischi. A mano a mano si
sono aggregate varie persone, e l’esperienza è stata per loro stessi in qualche
modo anche didattica, ma al tempo stesso
conviviale. Ribadisce Dogustan che ha suo giudizio non necessariamente debbano
essere rispettati dei “canoni brasiliani”, rivendicando una libertà di approccio
all’interpretazione del repertorio choristico fuori dal Brasile.
È poi la volta della chitarrista Giulia Salsone, che racconta delle sue esperienze: dalla conoscenza
della musica di Baden Powell a
quella di Irio de Paula: “tutto
nasce qui, a Piazza Navona, dove incontrai Raffaele Bella e altri chitarristi:
ci si ritrovava e si suonava dal classico al jazz, fino alla musica brasiliana”.
L’ascolto di Baden Powell è stato poi fondamentale per tutti, e successivamente
sono arrivati gli studi di jazz. C’è stato quindi un percorso di conoscenza degli
stili cronologicamente a ritroso: “come spesso accade si parte dalle cose
attuali per andare via via a cercare le cose del passato, indietro nel tempo…
fino al 1870. E così scoprii lo choro”. Negli anni della sua attività conosce i
gruppi e i musicisti che suonavano musica brasiliana in Italia, come ad esempio
Stefano Rossini, e successivamente negli anni 2000, dopo più di 20 di amore per
quella terra, grazie alla cantante Melissa
Freire finalmente riesce ad andare in Brasile, dove frequenta rodas e gli storici locali come il citato Bip Bip. Tornata
in Italia è nato il desiderio di ricreare a Roma qualcosa di simile, e così nel
2009 con Massimo Aureli, Jenifer Clementi e Massimiliano Natale nasce il Conjunto
Choroma, che è una esperienza nata dalla pratica, che in sé "non ha nulla di
didattico". A questo punto interviene il moderatore Raffaele Bella che ricorda il grande chitarrista Irio de Paula, da
lui ascoltato per la prima volta nel 1973, il quale cambiò la vita di tanti
chitarristi che a quell’epoca si erano innamorati della musica brasiliana in
Italia.
La flautista Barbara
Piperno nel suo intervento, sottolinea poi la ricchezza dello choro e anche
il suo aspetto ludico. Anche lei
racconta la storia del suo incontro con lo choro, iniziato in modo un po’
casuale: come tanti iniziò a suonare bossa nova, ma senza molta voglia di
approfondire. A quel punto, dopo aver inciso alcuni brani su youtube, fu
contattata da Cristina Renzetti, che
cercava una flautista per suonare choro a Bologna. Il suo approccio
inizialmente è basato sui suoi studi classici e poi su tanto ascolto di
incisioni di choro. Nel 2012 va per la prima volta in Brasile e finalmente
comincia a relazionarsi allo choro suonandolo stabilmente con altri musicisti. Conosce
poi Marco Ruviaro, che tra 2012 e
2013 organizzava delle rodas aperte a
tutti (più che rodas erano degli
“intensivi di choro”, dove si suonava per ore e ore di seguito). Anche per lei
è stato comunque determinate Guinga,
grazie al seminario organizzato da Giovanni Guaccero alla Scuola di Testaccio,
nel 2011. “In Guinga ho cominciato a sentire che c’era choro, ma anche tante
altre cose…”. In ogni caso, ribadisce la Piperno, l’importante è suonare con
gli altri, avere uno scambio con le persone, di ogni età, dagli anziani ai bambini.
Qui in Italia ci siamo un po’ dimenticati di questa cosa, e forse solo un po’ al
sud è rimasta, ad esempio in città come Napoli: “vedersi per suonare,
comunicare in un modo diverso, per migliorarsi, per imparare sempre di più”.
Ribadisce quindi il grande valore
sociale dello choro, e soprattutto il fatto che il musicista di choro fa
parte di una comunità che esiste in
tutto il mondo, in tutte le grandi città, e quando si viaggia “chi
è parte di questa comunità la prima cosa che fa è cercare qualcuno che in quel
luogo suona choro…”, per scoprire sempre musicisti nuovi, scoprire il loro modo
di esprimersi, e scoprire il tipo di ironia musicale che hanno.
Poi è la volta della “vecchia guardia” dei musicisti
brasiliani attivi a Roma, Gianluca Persichetti, Stefano Rossini, Massimo Aureli, i
quali salgono tutti e tre insieme a parlare. Comincia il chitarrista Gianluca Persichetti che racconta di come negli anni ’70 era
difficile reperire dei materiali. Fin da bambino Persichetti cominciò a
studiare la chitarra e già negli anni ’67-’68 suo padre gli portava dal Brasile
dischi di bossa nova e musica brasiliana: “è importante capire che negli anni
’70 qui non si trovava nulla, tranne qualche disco che arrivava alla libreria
Rinascita”. Figure importanti in quel periodo sono state Giovanna Marinuzzi,
Irio de Paula e poi gli amici Stefano Rossini e Massimo Aureli. “Noi abbiamo dovuto imparare tutto
attraverso i dischi e le cassette…
Capire ritmiche e accordi completamente sconosciuti”. Lo choro è arrivato dopo
e molto importante è stata l’esperienza della Choro Orchestra al Conservatorio di Foggia, con i ragazzi del
conservatorio, e con cui si è realizzato un cd (con la partecipazione di Reco
do Bandolim e Daniela Spielmann) e con
cui si sono fatti molti concerti e si è creato molto entusiasmo. Persichetti sottolinea
poi come a volte musicisti classici e jazzisti cadono in errore, prendendo un
brano brasiliano e suonandolo senza conoscere tutto il retroterra che c’è
dietro.
Interviene successivamente il percussionista Stefano Rossini che sottolinea l’importanza del professionismo nella
musica. Anche lui ricorda il ruolo fondamentale di Irio de Paula (il quale anch’egli si era formato attraverso lo
choro), che ha rappresentato per lui un po’ il punto di inizio: Irio de Paula,
il batterista Afonso Viera, il
percussionista Mandrake, arrivarono
a Roma accompagnando Elza Soares nei
primi anni ’70, e vi rimasero. “Con Afonso arrivavano gli strumenti brasiliani,
ed era come avere un pezzo di radice dietro casa”. “Non perché fossero
necessariamente i più bravi, ma perché erano i più veri”. Poi ricorda la formazione
di vari gruppi come quello con Giulia
Salsone, Corrado Nofri, Alfredo Paixão. E soprattutto sottolinea la centralità del ritmo: “Questa musica
non può prescindere dalla conoscenza e pratica del ritmo”, e rivendica
l’importanza della didattica, anche come esperienza individuale. “È necessario
porsi in un modo corretto verso questa cultura, e non si può prescindere
dall’aspetto ritmico”. Si augura poi che questo incontro al CCBI sia uno
stimolo per proseguire, per unirsi, e “fare gruppo”, un po’ come è stato per il
jazz.
È poi la volta del chitarrista Massimo Aureli, che ribadisce come lo choro sia una musica complessa ma al tempo stesso
emozionante. Anche lui ricorda il ruolo di Irio
de Paula, Luis Agudo, Giovanna Marinuzzi. “Da ragazzo mentre frequentavo il
Conservatorio, ascoltavo musica brasiliana, attraverso i dischi comprati da
Rinascita”. In realtà “oggi c’è molto
consumo, ma poco ascolto. Allora si ascoltavano i dischi tantissime volte,
e questo in parte suppliva all’assenza di una scuola”. “Come italiani e
europei, al di là dei discorsi tecnici, ci manca la cultura di quella musica, manca
la presenza, e il vivere in quei posti”. Per questo è necessario molto rispetto
e onestà nell’avvicinarsi a questo stile, tenendo
presente che noi non siamo brasiliani. Andato per la prima volta in Brasile
nel 2010, Aureli ormai torna lì ogni estate cercando di “afferrare più informazioni
possibili e cercando poi durante l’anno di applicare le cose apprese”. La
passione per la 7 corde è nata con il trio con Persichetti e Delle Cese: “suonando Bach, mi capitò di fare il
basso continuo, e vidi tanti punti di contatto con lo choro. Maurício Carrilho, grande chitarrista
nipote di Altamiro e figlio di Álvaro, in un suo articolo parlava proprio di
questa somiglianza tra il basso continuo e i movimenti della chitarra 7 corde”.
Aureli concorda sull’importanza della roda,
ma sottolinea anche il valore dello studio. “Nello choro ho trovato vicinanza con la musica classica. Ma la
musica classica ha un po’ perso il piacere del suonare insieme, e dall’altro canto
il jazz è un po’ troppo schiacciato sul virtuosismo. Lo choro è invece una
musica che permette allo stesso tempo disciplina
e interazione”.
Finiti gli interventi in scaletta, ce ne sono altri non
preventivati da cui poi si sviluppa una discussione. La cantante e chitarrista Giovanna Marinuzzi ricostruisce gli
inizi della sua carriera: gli anni ’70 al Folkstudio
grazie al grande Giancarlo Cesaroni,
i corsi di portoghese al CEB, e poi la conoscenza con Irio de Paula (con cui ha suonato in duo), il quale era molto
generoso con gli altri musicisti che si avvicinavano alla musica brasiliana. “Con
Irio suonavamo sempre qualche choro”, afferma la Marinuzzi che poi ricorda
altri momenti della sua carriera, dal duo con Michele Ascolese, fino alla scoperta degli choros cantati, incisi poi in un cd.
Interviene poi la pianista classica e cantante di musica
brasiliana Roberta Piccirillo: “Qui sono
presenti tanti musicisti classici (Barbara Piperno, Massimo Aureli, Gianluca
Persichetti), e riflettevo sul perché la musica brasiliana riesca a coinvolgere
in questo modo… Ragionavo sulle parole di Massimo, su Bach… Secondo me ci avviciniamo allo choro perché è parte
della nostra storia. Allo stesso tempo, penso che la musica brasiliana
ancora riesca a portare dentro di sé quel senso di libertà, che fa parte
della musica più in generale. La musica prima di essere un’esperienza filtrata da
uno spartito, da una tecnica, da un sacrificio, dovrebbe essere qualcosa che ci
dà piacere, coinvolgendoci. Mi ricollego a quello che diceva Barbara,
al senso ludico, non in senso superficiale. Quando studi, ci deve essere il
sacrificio, ma deve anche esserci divertimento
e gusto. E forse la musica classica
ha un po’ perso quel gusto […]. Personalmente vivo questa scissione. Lo
studiare a certi livelli nella musica classica sembra voler rasentare la
perfezione. Ma a volte la perfezione non è umana. E il suonare non può essere
solo esibire qualcosa di perfetto. Invece nella musica brasiliana, a volte dall’errore
nasce qualcosa di bello […]. Così a volte nella musica classica cerco di
portare un po’ quel senso di libertà che trovo nella musica brasiliana”.
Risponde Gianluca Persichetti: “Condivido pienamente. Il lunedì quando vado in Conservatorio
a Foggia, la sera andiamo tutti insieme a mangiare… Ma non suoniamo.. Perché cosa potremmo
suonare? Non abbiamo un territorio comune… Se suonassimo cose classiche,
saremmo dentro schemi rigidi, e non sarebbe possibile…”. Giovanni Guaccero: “il punto è che noi come nazione non abbiamo una
cultura musicale condivisa, e il repertorio tonale è per noi solo qualcosa di
museale, legato al repertorio classico rigidamente scritto, a differenza di
quanto accade con lo choro”. Barbara
Piperno: “anche se noi musicisti classici volessimo trovare un repertorio
da condividere, ci sarebbe comunque il problema dello spartito. Ora suonando
choro, sono obbligata a memorizzare… ed è molto meglio, e sono obbligata alla
consapevolezza”. Giovanni Guaccero:
“il punto centrale è che lo choro è un linguaggio
tonale. E noi siamo cresciuti in Conservatorio in un’epoca in cui si diceva
che la tonalità era morta… Ma in realtà non è così. Lo choro rappresenta l’apoteosi
del linguaggio tonale, ma ci fa apprendere la tonalità in un modo più profondo,
attraverso il canale uditivo. Ho fatto vari corsi in Conservatorio per i bienni
abilitanti, per studenti già diplomati. Gli allievi ricordavano poco o nulla di
armonia, perché è generalmente insegnata in un modo che tende a escludere il
suono. Lo choro è molto utile alla didattica
della musica, perché ci avvicina alla sintassi tonale, e riesce a mettere
in evidenza dal punto di vista sonoro la dialettica consonanza/dissonanza, la
pratica delle ornamentazioni, dei cromatismi”.
A quel punto faccio delle considerazioni finali, tenendo
conto dei discorsi emersi fino a quel momento: ricordo come sia stata messa in
evidenza una sorta di dicotomia tra la dimensione della roda e quella concertistica, e anche tra l’apprendimento veicolato
attraverso l’ascolto e le forme di didattica organizzata. Io penso che serva
tutto. Serve la roda, serve
l’ascolto, ma voglio anche sottolineare il ruolo della dimensione concertistica, sia come ascoltatore che come musicista. A
mio giudizio l’ascolto dal vivo di grandi solisti come Baden Powell o gruppi
come il Trio Madeira Brasil o Egberto Gismonti sono state per me esperienze
fondamentali, come anche l’ascolto da
disco, come sottolineava Carrilho. E questo mi fa pensare allo choro come linguaggio moderno, perché lo
choro è sempre stato veicolato anche attraverso l’incisione di dischi, se pensiamo
a Pixinguinha, ad Azevedo e ad altri. Voglio ricordare poi l’importanza dei vari “mediatori culturali” che hanno portato
a Roma e in Italia la musica brasiliana: il citato Irio de Paula, ma anche la
cantante di bossa nova Ana Margarida,
il percussionista Luis Agudo. E in ultimo rivendico il ruolo della progettazione didattica, come dimostra l’esperienza di
Brasília, che in qualche modo tende a “organizzare” e a dare una forma a qualcosa
che era già nella tradizione orale. E tutto questo è importante soprattutto per
noi, fuori dal Brasile, che non siamo di “madrelingua”.
Interviene poi il poeta e insegnante di portoghese, Luís Elói Stein che ringrazia e porta i
saluti del CCBI: “Lo chorinho ci unisce, e io come amante degli amanti dello
choro, dico che qui abbiamo avuto un’opportunità unica, perché in trent’anni in questo
luogo, non ricordo un livello come questo”. Chiude il pomeriggio, prima della
roda serale a Testaccio, Raffaele Bella
ribadendo come lo choro sia la struttura
portante della musica brasiliana, una musica che ormai fa parte dei “suoni
planetari”.
Voglio chiudere questo resoconto facendo delle ulteriori
riflessioni personali. Tra le varie dicotomie emerse, come quella roda/didattica organizzata, quella
professionisti/non professionisti, lo choro suonato dagli chorões/choro suonato dai jazzisti, una in particolare ritengo
importante, che è quella che riguarda il rapporto repertorio/prassi esecutiva. A mio giudizio lo choro non è un tipo di repertorio
(o meglio, non è solo un tipo di repertorio), tanto meno è un “ritmo” come a
volte capita di sentire. Lo choro è un
“linguaggio”. E lo choro come linguaggio è nettamente distinto sia dal jazz
che dalla musica classica. Ma in tutta una prima fase nel nostro rapporto di
“stranieri” con lo choro, è possibile dire che lo abbiamo inteso, per lo meno
fino agli anni ’90, come un tipo di musica legato a determinate caratteristiche
compositive, riscontrabili nella scrittura dei brani di Nazareth o Pixinguinha
che cominciavano ad arrivare da noi, per non parlare di Villa-Lobos, in
particolare per la tradizione chitarristica. Qualcosa nella percezione e nella
conoscenza dello choro è cambiato dopo:
così negli anni 2000 si è passati in Europa (e anche in Italia), dallo choro
inteso più che altro come “repertorio”, come accadeva a partire più o meno dagli
anni ’70 (con i musicisti che suonavano altri generi di musica brasiliana che
inserivano nel loro repertorio anche qualche choro), a una nuova
crescente consapevolezza relativa allo choro inteso come “prassi esecutiva”,
col diffondersi in particolare della pratica della roda.
Negli interventi di tutti è emersa la coscienza della
necessità di cercare una unità di
intenti tra chi opera nel settore nello choro in Italia, nella
consapevolezza di muoversi totalmente controcorrente
rispetto alle leggi del mercato. Ed è proprio Luciana Rabello a sottolineare questo aspetto nelle parole che ha
voluto dedicare su Facebook al nostro incontro, e con la traduzione delle quali
voglio chiudere questo resoconto: “I musicisti italiani prendendo sul serio lo
studio dello choro. È fantastico! Sono influenzati dalla nostra cultura guidati
dalla passione e dal riconoscimento e non dall'imposizione del mercato. La
forza del Bene! Sono felice di vedere che accade questo!”.
Giovanni Guaccero